In morte di Paolo Signorelli
È una sera di fine agosto del 1987, Parma ancora dormicchia nella sua estate umidissima. Tutto ci si aspettava, in città, tranne quelle strane persone che si sono date appuntamento vicino al carcere di San Francesco. Ci sono i gandhiani del gruppo “Satyagraha” e i giovani del Partito radicale, ci sono i ragazzi del Fronte della Gioventù, quelli di Ideogramma e del Movimento Politico, ci sono parlamentari e cittadini qualsiasi, ci sono i soliti riconoscibili poliziotti in borghese, c’è qualche divisa più discreta. Ad aprire il corteo è Ferdinando Signorelli, accanto a lui Claudia, Silvia, Luca. C’è come un filo di fierezza a legare tutti quei manifestanti in un solo appello: che a Paolo Signorelli non venga inferta un’ora in più del suo interminabile supplizio detentivo.
«Paolo libero!» chiede quella civile processione. È probabile che da viale Mentana una debole eco di quel vociare penetri all’interno della vecchia galera, per cui un asciugamano rosso viene agitato da dietro le sbarre e tutti immaginano sia stato Paolo a rotearlo in segno di saluto. Il corteo si esalta, per quasi tutti è un incitamento alla protesta, alla ribellione contro un’ingiustizia atroce. Per Silvia, che mi cammina accanto, non solo. Perciò piange, per lei è innanzitutto il papà che la abbraccia, la consola, la aspetta. È il papà che le avevano rapito sette anni prima, mentre dormiva nella casa di Marta. Io non dimenticherò mai i suoi singhiozzi e le sue parole: «È mio padre, capisci?».
Che bella comunità di liberi si era incontrata quella sera nella Bassa. E quale memoria migliore ricordarla adesso, che abbiamo saputo, come una dolorosissima fitta, della morte di Paolo Signorelli. Aveva 76 anni, era laureato in scienze politiche, aveva insegnato storia e filosofia nelle scuole, era stato dirigente di Ordine Nuovo e, dal 1971, consigliere comunale del Msi a Roma. Negli ultimi anni animava la rivista garantista Giustizia giusta.
Nato a Viterbo, è morto ieri a Roma, dove si svolgeranno i funerali, oggi alle 10.30, nella chiesa di Piazza dei Giochi Delfici a Vigna Clara. I suoi cari presenti e testimoni di un congedo triste, che nessun esercizio retorico e nessuno slogan potrà mai consolare, perché egli è stato, prima di tutto, un marito, un padre, un fratello e un nonno indimenticabili. Era, Paolo, tutte queste intime figure qua, che nulla tolgono oggi alla sua immagine pubblica di maestro e di compagno di avventura di quanti, illo tempore, gli militarono accanto, lo tennero in simpatia, lo stimarono, lo amarono. E di quelli che ancora oggi ne erano affascinati, fosse soltanto per la sua visione irriducibile e vaticinante di cui ha sempre bisogno chi desideri sognare.
Ciascuno serba in sé un’immagine, uno scambio di battute, l’aneddoto esemplare della propria vita, e tutto ormai si mescola nel sentimento uniforme di una perdita, e finisce così nel vuoto odierno di cui scriviamo e leggiamo, perché ci servirebbero assai di più, per riprenderci da questa giornataccia di dicembre, un bel monologo di Paolo, un suo bonario litigio con qualche inflanellato a cui pure vuol bene, un documento stile anni Ottanta e i commenti ironici di suo figlio Luca, come a dirgli: «A papà datte pace!».
Ma lui nemmeno a parlarne, non se la dava mai. Proprio mai. Non era questione di dispetto, semmai di sinapsi in perpetuo movimento. Non era capace di frenarle da sé, figuriamoci su amorevole consiglio filiale…
Perché la misura della sua differenza resterà per sempre quella: all’indomani della liberazione, avvenuta il 25 luglio del 1990 dopo 9 anni 11 mesi e 26 giorni di carcerazione preventiva, il professor Paolo Signorelli, ex detenuto per non aver commesso alcun fatto, poteva tranquillamente passare all’incasso. Quanti, al suo posto, non avrebbero riscosso quell’incredibile rendita di posizione accumulata nel corso della più lunga detenzione preventiva della storia della Repubblica italiana? Senatore? Deputato europeo? Si accomodi…
Nulla di scandaloso, intendiamoci, ma il dovuto risarcimento di un calvario al quale giudici totalmente inetti e ignoranti, se non quando in perfetta malafede, lo avevano trascinato per anni, da una casa circondariale all’altra, da un mandato di cattura bizzarro a uno grottesco, intanto mandando giù condanne ed ergastoli come si fosse trattato dell’unico possibile colpevole di questo mondo: il professor Paolo Signorelli, di professione imputato.
Quando entra nel carcere di Sant’Eufemia ai primi di settembre del 1980 Paolo è un uomo di quarantasei anni ed è in piena forma. Quando lascia il carcere di Parma per i domiciliari romani è però quasi un disabile, non riesce a neanche a camminare. Lo hanno distrutto fisicamente. Ecco, da quelle tante malattie, indotte come un lento veleno, fino a quest’ultima che lo ha ucciso c’è un nesso inevitabile. Il cancro dell’ingiustizia, alla fine, se l’è portato via.
Eppure Paolo non intascherà la moneta politica che il sistema giudiziario gli aveva negato con una serie di vergognosi artifici. Non un centesimo di risarcimento ma un milione di lire da versare alla Cassa Ammende, giacché (a sentenza) «… essendo il Signorelli ideologo di destra… il suo comportamento consapevole e volontario era stata la causa che aveva giustificato il provvedimento restrittivo». Assurdo o qualcosa di peggio? E chi risarcirà Claudia degli anni spesi a fare il giro delle sette chiese, dei «no» protervi dei garantisti dell’ultim’ora, delle sentenze prescritte come un tema in brutta copia, delle attese di una giovane donna italiana con due figli e nessun santo a cui votarsi?
In una democrazia avanzata la morte di Signorelli aprirebbe un fascicolo, l’ultimo, intitolato al più orrendo caso giudiziario dal dopoguerra a oggi. Per molto meno della metà, per Massimo Carlotto, era intervenuta la grazia del Presidente della Repubblica. Per Paolo Signorelli non si è usata nemmeno la buona creanza. D’altronde si faceva così con i “cattivi maestri”. Che definizione distorta e ridicola! Tanto che bastava conoscerlo, Paolo, per cancellarla. In realtà non ho mai conosciuto un pensiero più ospitale del suo. Entrava e usciva con delicatezza da te che gli parlavi e lo ascoltavi. Autoritario mai, neanche nei suoi momenti più ieratici e solenni, quando annunciava il compiersi del nostro avvenire, magari alla controra del giorno migliore, passato all’ombra del grande albero tra amici e affetti.
Che meraviglia di giovinezza ci hai regalato, “camerata” Signorelli, e come manca della tua energia e dei tuoi occhi, questa mattina che ti salutiamo, questo nostro bellissimo mondo che oggi tramonta!
Giuliano Compagno
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