Fascismo Eretico
Fascismo eretico
Da “l’Universale” a “Tabularasa”: un viaggio attraverso il Fascismo eretico
Berto Ricci, Beppe Niccolai, Antonio Carli:
tre nomi da inscrivere nella storia dell’eresia.
L’eresia di quel Fascismo «immenso e rosso» cantato appassionatamente e suggestivamente da Drieu e riproposto con lucidità di analisi da De Benoist.
«La nostra strada non va né a destra né a sinistra. Va avanti dritta»
(Ernst Jünger)
Noi non possiamo e non vogliamo, tanto per essere chiari, identificarci con la destra. Da anni ci siamo battuti su posizioni altre, verso un ambizioso e però legittimo posizionamento «al di là della destra e della sinistra» che, a ben vedere, sta a significare il superamento di categorie concettuali estranee alla nostra visione del mondo. Non può esserci per noi -neppure sul piano della provvisorietà “pragmatica”- una scelta di campo a destra, laddove la destra rappresenta un’acritica accettazione di valori ritenuti tradizionali e che, invece, inverano la conservazione di un mondo di cui nulla può essere salvato, perché esso coincide con la difesa dell’Occidente che è nemico dichiarato non soltanto del pensiero eretico ma di qualsivoglia tensione ideale diretta a rifiutarlo ed a scardinarne l’assetto politico, sociale ed economico.
La dicotomia destra-sinistra continua a rappresentare l’alibi di comodo di quanti (vedi Area) non hanno il coraggio di schierarsi sulla trincea dell’antagonismo che solo può rappresentare il superamento di un tempo disegnato dalla congiunzione di Giuda con Caino. Quanto poi è sostenuto da coloro i quali intendono risciacquare la loro cattiva coscienza di rinnegati cercando di dare contenuti ideali alle loro scelte di potere, vale appena ricordare che la destra o è «destra» o è «sociale»: nel momento in cui la destra si fa sociale automaticamente si estingue come destra.
La sfida politico-culturale epocale è tra l’integrazione e la ribellione al Pensiero Unico che pretende omologare, globalizzare, uni-formare, distruggere le diversità e le identità popolari. Una sfida che significa per il non-conforme andare oltre, al di là degli stanchi stereotipi rappresentati dalla destra e dalla sinistra. Anche «per farla finita con la destra» come sostiene in un suo lucido pamphlet Stenio Solinas che pure proviene dai ranghi della nouvelle vague intellettuale di destra.
Io non vengo da lì. Io appartengo ad una generazione che per una manciata di minuti non ha potuto prendere parte all’ultima battaglia della guerra del sangue contro l’oro. Non fui nel tempo giusto un leone morto, ma non sono diventato un cane vivo…
La mia generazione ebbe, a guerra finita, pessimi maestri. Vili, impostori, felloni, voltagabbana.
Il “viandante” intraprese il suo viaggio con due libri nel suo tascapane: “I Proscritti” di Von Salomon e “Rivolta contro il mondo moderno” di Julius Evola. Poi imparò a coniugare Nietzsche e Heiddeger con Platone, Marinetti con Papini, Codreanu con La Rochelle, Brasillach con Céline, Ortega y Gasset con Ezra Pound. «A Eleusi han portato puttane …». Poi Berto Ricci e Jünger… E divenni correttamente eretico e jüngerianamente ribelle. E la ribellione e l’eresia hanno sempre caratterizzato il mio impegno politico e culturale. D’altronde quando si aderisce ad una Weltanschauung trasgressiva che «non va di moda» perché non puzza di usurocrazia, la contrapposizione, l’antagonismo sono obbligati e non si può non cadenzare il passo lungo le vie insidiose, ma capaci ancora di suscitare entusiasmi, della lotta. Non si accetta il popperiano miglior mondo possibile: lo si combatte e basta.
Tutto questo dovevo dirlo: personalizzando un percorso perché coincidente con la trasgressione e l’eresia di altri che è, a dir poco doveroso, ricordare per avere essi battuto «i sentieri del Terribile». Un’avanguardia procede senza voltarsi indietro a guardare cosa fanno le salmerie. E una pattuglia di notte ha come guida il sogno e le stelle.
BERTO RICCI
«Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è il nemico».
Berto Ricci, dunque, e “l’Universale”. E i ragazzi che a venti anni partirono volontari per andare a combattere per una Patria che non è una figura retorica, né sopraffazione delle Patrie altrui, ma la difesa delle identità minacciate. Berto Ricci, l’eretico ed il credente in una Rivoluzione che si era impantanata nelle trappole dell’Ordine Costituito.
«Non c’è cosa peggiore per il rivoluzionario di vincere la rivoluzione» sostiene Jean Cau colloquiando con il Che .
«Avevi tu, che non avrai mai quarant’anni, sì, la paura di una morte ben più terribile di quella che ti avrebbe folgorato. Quella del guerrigliero in te. Quella del cacciatore. Quella dell’Angelo. Quella dell’artista. Hai trentanove anni, l’età in cui, dice Hugo, “si scende, svegli, l’altro pendio del sogno”. Verrà il tempo dell’ordine e delle ragioni del mondo? Bisognerà appendere fucili e sogni alla rastrelliera? E vivere, mio Dio, vivere, o mio Dio, vivere come? E sentirsi invecchiare in vanità ed onori?».
L’Ordine Costituito. Berto non aveva vent’anni quando insieme con i ragazzacci che con lui vivevano l’esperienza eretica de “l”Universale” sfidava, in pieno regime, «la protervia e la decadenza culturale di molti federali in orbace e stivaloni» pronti a balzare sul carro del vincitore di turno. E pure credeva nella funzione imperiale dell’Italia e del Fascismo, convinto -come scriveva nel “Manifesto realista”- che esso avrebbe esercitato una Rivoluzione «centro d’una imminente civiltà non più caratteristica d’un continente o d’una famiglia di popoli, ma universale».
E ci si arruola e si va morire a vent’anni, a trent’anni. Non invecchiando in vanità ed onori.
«Viene dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimani convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che fu lo scettico per eccellenza, «un epilettico della morale» come ebbe a definirlo Beppe Niccolai. Uno diventato antifascista e poi rimasto a presidiare «l’Italia, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più». Uno cui piacque vivere nella culla di quella grassa borghesia che gli diceva «quanto sei bravo».
Ecco quanto scriveva nel 1955 Montanelli in un articolo dal titolo “Proibito ai minori di 40 anni”. «Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico “l’Universale”, col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia incontrato in questo Paese, in cui il carattere è l’unica materia in cui si passa senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai proprio a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente. “Queste sono faccende in cui s’ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d’aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l’uno di fronte all’altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più sorrideva. Pensaci e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino o sino all’esilio. Questo solo richiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato”».
Quell’«epilettico della morale» consumò, notoriamente, il suo tempo rincorrendo -e con successo- i «luccichii» che tanto gli piacevano, Berto Ricci scelse con coerenza la via ultima della lotta e della morte.
E di lui scriverà Corvié, un altro che gli fu amico e che poi traslocò in altri settori politici: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere, come uomo tra gli uomini, non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sé non chiedeva che sacrifici, sofferenza e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».
Ma quale parte, ci chiediamo? Non quella dei “farabuttelli”, i babbuini -come li chiamava Berto Ricci- dell’Ordine Costituito sempre pronti, poi, a voltare gabbana e a scendere in strada a cose fatte per inneggiare a chi ha vinto.
La toscanità eretica di «un maledetto» come la chiamerà Malaparte. Anzi di tutti quei maledetti che hanno saputo sempre appassionarsi e scannarsi per la fazione, come accadde tra guelfi e ghibellini, tra neri e bianchi. E come accadde nell’agosto del ’44 quando si trovarono dinanzi, in uno dei tanti appuntamenti della loro storia, rossi e neri. Quando fu passato per le armi “Alfredino” (cfr. Alfredo Magnoldi, il campione europeo dei pesi gallo) e quando furono fucilati dai rossi, sulla gradinata di Santa Maria Novella, i ragazzacci fascisti. Ragazzacci di 15-16 anni. «Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C’era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d’occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana tra le donne del popolo».
«Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l’ha con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode alla maniera italiana».
Così, anche così, volle ricordarlo Beppe Niccolai, il 10 dicembre 1988 a Modugno in un intenso incontro comunitario organizzato per il Centro culturale “La Quercia” da Pino Tosca. Un altro eretico morto in età ancora giovane e che mai divenne «un cane vivo».
BEPPE NICCOLAI
«Non è importante la vita. Importante è ciò che si fa della vita»
«Denunciare nemici mortali che sono dentro di noi: la partitocrazia che genera professionismo politico contro la militanza; la casta contro l’impegno morale; la burocratizzazione; la corte e i cortigiani; la tendenza a ridurre il partito periferico ad una rete di piazzisti del voto, e che conduce ad una selezione verticistica della classe dirigente secondo le fedeltà, non alle linee ideali, ma alle persone che hanno il potere».
In queste parole di Beppe Niccolai si racchiude la concezione militante dell’eretico della politica, di chi intende la lotta come trasgressione a fronte del conformismo della “casta” dei politicanti e come coerenza con l’impegno morale del combattente dell’Idea. Un combattente di razza che sa, come Berto Ricci, cosa stanno a significare «le Inghilterre che stanno dentro di noi» e che quelle ha cercato sempre di abbattere. Con l’impegno febbrile, con l’esempio, con l’abnegazione generosa, con la denuncia, con l’insegnamento di vita. Maestro di pensiero ma ancora prima di stile. Fuori dagli steccati, avendo come nemici il conformismo, il burocratismo, l’assistenzialismo. Odio e amore: che vivono in maniera forte, nell’intensità e nell’inquietudine di chi non conosce la resa, di chi rifiuta la via della fuga.
Tutto questo e tanto altro ancora apprendiamo dai suoi articoli, dai suoi appunti, dai suoi interventi parlamentari, dal “Rosso e Nero e da “Duello al Sole”, le rubriche curate da Niccolai sul “Secolo d’Italia”, su “Pagine Libere”, su “L’Eco della Versilia”.
In molti -”camerati” ed avversari- hanno ricordato dopo la morte il «Fascista corsaro». Molti di quei camerati hanno abbandonato la trincea della trasgressione o hanno preteso realizzarla su posizioni di comodo “altre”.. Novelli “babbuini” che non hanno saputo far loro l’insegnamento di vita di quello che a lungo ritennero essere il loro maestro. Carità di patria -o forse soltanto il fastidio- ci spingono a non elencarli.
Ci piace, invece, ricordare le parole di Pietrangelo Buttafuoco, che lo vide come il riferimento degli eretici. «Beppe Niccolai aveva la capacità di vedere la realtà senza l’affanno elettorale. Raccoglieva intorno a sé il “mondo degli umili e degli indifesi” e diede alla militanza politica un senso ed un imperativo categorico. Il senso e l’imperativo categorico di un impegno costruito con il cemento del progetto. A lui, infatti, un uomo già monumento per stile e dirittura morale, si rivolsero gli inquieti e tutti quelli che dopo avrebbero lasciato la Destra alle loro spalle. Non c’è oggi in circolazione un fascista che non abbia avuto da Niccolai un regalo: la fotocopia di una pagina importante, un libro sottolineato nei punti giusti, una lettera».
Un «libro sottolineato», non suo: egli non scrisse libri. Come non ne scrissero Berto Ricci e Antonio Carli. Anche questo rappresenta un segno distintivo di chi vive la trasgressione inviando segnali di vita e fornendo esempi di stile che, a ben riflettere, è il modo di concepire la lotta lontano dalle cattedre imbalsamate e dagli orpelli degli intellettuali.
Nel febbraio del 2002 si tenne a Roma, presso l’affollatissima sala “Marinetti” del Ripa All Suites Hotel, un Convegno su Beppe Niccolai e Antonio Carli al quale parteciparono Pietrangelo Buttafuoco, Giampiero Mughini -suo caro amico e caro “nemico”- , e Domenico Mennitti. L’incontro, organizzato dal Fronte Sociale Nazionale, non volle «avere il sapore cinereo di una commemorazione», ma volle essere una riproposizione di Niccolai «per l’attualità del suo pensiero, che non ha certo perso di smalto con l’andare degli anni ma dimostra di aver saputo cogliere “prima” le avvisaglie di situazioni politiche che si sarebbero “poi” puntualmente appalesate». Un incontro voluto fortemente da me che non potei nei “tempi giusti” conoscerlo e frequentarlo, perché impegnato su posizioni altre o sequestrato nelle galere del sistema. Un incontro la cui centralità fu rappresentata dalla necessità avvertita di riprendere la via tracciata da Niccolai prima e da Antonio Carli poi -da “L’Eco della Versilia” a “Tabularasa”- per marciare ancora più convinti lungo quei sentieri che «già sono delineati innanzi a noi».
Al suo, al loro fianco -uomini «difficili da raccontare» nella loro maledetta toscanità non fiorentina ma versiliana- furono sempre i più «moderni», i ragazzacci irriducibili, insofferenti ad ogni forma di compromesso e di ipocrisia.
Non a caso Beppe Niccolai fu l’unica voce fuori dal coro nel Congresso missino di Roma del 1984, con la mozione “Segnali di Vita” sottoscritta con entusiasmo dalle componenti giovanili e creative del partito. Il MSI: quel partito al quale aveva aderito sin dal ritorno dalla terribile esperienza del “Fascist’s criminal camp” di Hereford nel Texas, in cui era stato internato insieme a Giuseppe Berto, a Roberto Mieville, a Carlo Tumiati -solo per ricordarne alcuni-, senza mai piegarsi e mai collaborare. Da quella esperienza, anzi, attinse ancora più forza per le sue battaglie politiche, mai allineate. Dalla relazione di minoranza alla Commissione antimafia (che gli valse l’elogio di Leonardo Sciascia), all’interrogazione parlamentare che fece esplodere il caso dell’Argo 16 “sabotato” dagli agenti del Mossad, all’elogio al Vietnam vittorioso sull’imperialismo americano si snodò un percorso non-conforme, culminato non a caso con il rifiuto nel 1976 di una nuova candidatura parlamentare. Al «gusto del Palazzo», alla poltrona preferì, insomma, la militanza avviandosi in una dura autocritica che cercò, senza risultati, di estendere a tutto il partito.
Gli anni ’80 furono gli anni della rilettura puntuale e feroce degli errori compiuti verso la contestazione giovanile ed in politica estera. Gli anni in cui con la rivista “L’Eco della Versilia” Niccolai costituì il più forte punto di riferimento per il dissenso interno e di dialogo con l’Area delle forze antagoniste al sistema di potere.
Alla sua morte sarà Antonio Carli, divenuto direttore di “Tabularasa” a raccogliere l’eredità spirituale del suo Fascismo rosso, rivoluzionario ed anarchico.
ANTONIO CARLI
«… a risvegliare questo nostro Popolo ed obbligarlo a tendere l’orecchio a richiami antichissimi sì da armonizzarli con il genio sopito… per incamminarsi oltre i bacini morti dell’abulia e della rinuncia»
Antonio Carli è un altro a non avere cercato mai il potere, ad aver fatto sempre e comunque quel che sentiva giusto, al servizio dell’Idea, rivendicando per sé e per la sua gente quel «diritto alla follia» di cui ebbe a scrivere sull’”Eco” prima e su “Tabularasa” poi, quando decise con un manipolo di eretici di continuare a cantare la trasgressione. Un manipolo che si andò nel tempo assottigliando a seguito delle solite scelte di campo dette “trasgressive”, ma che in realtà costituirono un abbandono della trasgressione. Non tutti -diciamocelo a cuor leggero- ebbero la capacità di correre il pericolo nella dimensione disperante del deserto. Ci sono revisioni e revisioni: c’è chi ha la forza e la “tigna” di essere ragazzaccio sino in fondo, di battersi «con l’ostinato orgoglioso carattere degli antichi Tusci» e tenta con caparbietà e con rabbia di “rivedere” coerentemente ad un credo quanto dai vincitori imposto, e c’è chi rivede se stesso e le sue idee e la sua antica appartenenza, recidendo d’un colpo legami umani e la fede. Arrendendosi senza avere l’onestà di ammetterlo. Roba da babbuini, insomma, travestiti da ribelli. Anche in questo caso non faremo elenchi: sarebbe sin troppo facile mettere all’indice i “revisori” della propria coscienza. E, quindi, inutile. Comunque dispendioso di energie che ad altro debbono servire.
Antonio Carli, dunque, il portabandiera della follia non perbenista. L’uomo e il camerata, sicuramente il compagno di lotta che per comporre le pagine squinternate di “Tabula” sveniva a notte attossicato dagli acidi. Lui che aveva una salute minata dal male e dalla incazzosità di un’esistenza maledetta. Come la sua toscanità.
Io lo ho amato e l’ho riguardato con ammirazione. Altri ancora continuano ad amarlo, ricostruendo il suo percorso politico attraverso i suoi scritti.
Non recitiamo altre parole: le riterremmo offensive, oltre che limitanti, per lui. Per questo, anche per questo, vogliamo ricordarlo con quanto da lui scritto sull’editoriale del primo numero di “Tabularasa” …
«… Presuntuosi noi di “Tabula Rasa”. Pensiamo di aver preso contatto col sole, di aver dissetato il nostro spirito nell’oasi, di esserci sentiti bruciare sul rogo. O forse, chissà! Siamo gli adolescenti avidi di luce che bevvero appena qualche sorso alla sorgente del sole e rimasero con la sete nell’ombra. Oppure, chissà! Crediamo di essere capaci di fare ciò che fece Michelangelo, genio selvaggio: portare alla luce, senza destarla, la Notte addormentata in una crisalide di marmo. Ma una cosa è certa: dei fiori sentiamo tutto il profumo, dei frutti tutto il sapore. Per questo siamo usciti dal tempio infestato da mercanti, da prestatori di lacrime ad usura che esplicano la mansione di rigattieri dell’altrui sacrificio, da rivenditori di elogi funebri, da speculatori della morte, da trafficanti della nostalgia. Lo sappiamo: le solite cassandre, presaghe di sventura, ci annunciano per via l’ingratitudine e l’oblio, un deserto di freddezza ed un oceano di solitudine. Non ce ne curiamo. La solitudine acuisce la mente, feconda il pensiero, rende sereni i giudizi. Siamo usi a vivere in siffatta maniera poiché sappiamo che tal comportamento è privilegio di pochi, ma agguerriti uomini. Che riscuotono consenso e stima. A ciò noi aneliamo. Soprattutto. Abbiamo avuto la capacità di separarci dal male per guardarlo dall’alto. Nella bolgia rimangono i deboli che vi si immergono per berne tutto il veleno e ai margini del trono del potere (immaginario e irraggiungibili) vagano nella paura e nella smodata ambizione di prebende. Senza badare al tipo dello sponsor… E s’ingrossa la folla dei cortigiani. Noi siamo pochi, è vero. Ma non ci turba la sensazione del deserto. Andiamo avanti. Con la nostra terrena miseria, con la nostra indomabile fierezza…Parliamo con la gente, la gente ci ascolta, la gente è la nostra bandiera… La gente, il popolo… Il popolo che soffre, che lavora e alla cui ombra si muovono i piccoli uomini della scena politica, i satiri corrotti e impotenti della vita pubblica».
E ancora. «La società sta vivendo una fase di transizione. La filosofia moltiplica i suoi sistemi, la scienza le sue leggi, il commercio i suoi mercati, ma la vita di ognuno impoverisce giorno dopo giorno. La tristezza di chi soffre non può durare in eterno. Il nostro modo di intendere la politica esula da quello che si definisce “tradizionale”. Non c’è una maniera onesta o disonesta di intenderla. Essa non può avere aggettivazioni. Vogliamo parlare dei morti due volte defunti alla vita e alla memoria, dei morti oscuri due volte seppelliti bell’oblio e nella fossa, dei non accolti alla fama, dei ripudiati dalla sorte, dei gregari della vita, dei diseredati che non possono levare la fronte alla superficie dell’opinione. Questi gli scopi della nostra battaglia, della nostra nuova avventura…Noi di “Tabula Rasa” ci siamo dimissionati dall’uniforme canea della vita “politica” del sistema per seminare il sale sul suo terreno. Per inaridirlo totalmente».
Stammi bene canaglia: ci rivedremo all’Inferno.
Paolo Signorelli